Religioni in guerra?

Perché le religioni scendono in guerra?: così Enzo Pace titolava efficacemente, ancora nel 2006, un suo lucido saggio pubblicato da Laterza, sul ruolo giocato dall’immaginario religioso in numerosi recenti conflitti.

La grande competenza dell’autore gli consentiva di individuare elementi ricchi di significato in scenari geografici diversi, sia contemporanei sia meno recenti. Un testo che avevo letto con grande interesse, ma con lo sguardo dell’osservatore distaccato, sentendomi pur sempre distante da simili dinamiche.

Oggi un simile sguardo è semplicemente impossibile. Non solo perché ci troviamo dinanzi, al cuore dell’Europa, un conflitto devastante – sia per le tante, troppe vittime sia per i potenziali rischi di escalation –, ma anche per il massiccio utilizzo del linguaggio religioso (e segnatamente cristiano) fatto in relazione a esso.

Così papa Francesco sceglie di legare la sua forte testimonianza al Dio di pace a una «consacrazione» di Russia e Ucraina a Maria: una ripresa di linguaggi probabilmente ben comprensibili alle due parti in causa, ma al contempo legati a un orizzonte che per molti altri risulta distante, difficile da decifrare.

Così il patriarca Cirillo di Mosca investe più volte tutta la sua autorità nel giustificare l’aggressione dell’Ucraina, descrivendola come una sorta di guerra metafisica contro un Occidente moralmente corrotto e giungendo ad accompagnare la benedizione alle truppe russe col dono di un’icona di Maria.

Così lo stesso Vladimir Putin cita l’evangelico «dare la vita per i propri amici» (cf. Gv 15,13) nel fallace tentativo di nobilitare le morti di tanti giovani soldati nell’aggressione all’Ucraina.

Certo non è possibile guardare in modo indifferenziato a simili riferimenti: la limpidezza dei ripetuti richiami al Dio di pace da parte di Francesco non fa che accentuare il contrasto con le parole di Putin, definite blasfeme da un teologo come Bruno Forte.

Ma anche da ampi settori dello stesso mondo ortodosso si sono levate dure critiche alle posizioni di Cirillo e all’orizzonte teologico associato a esse; addirittura diverse comunità legate a Mosca hanno cessato di nominarlo nella celebrazione eucaristica, mentre la Chiesa ortodossa ucraina legata a Mosca ha assunto una posizione opposta alla sua.

Lo stesso richiamo alla pace rivolto al patriarca di Mosca dal segretario generale ad interim del Consiglio ecumenico delle Chiese, Ioan Sauca – lui stesso ortodosso – rivela il profondo isolamento del primo; e la sensazione viene accentuata dalla sua risposta col maldestro e strumentale uso del linguaggio di «giustizia, pace e salvaguardia del creato», caro al movimento ecumenico.

Non c’è, insomma, alcuna simmetria tra i diversi riferimenti religiosi, né a partire da essi si potrebbe ritenere che siamo effettivamente di fronte a una guerra di religione o a una guerra tra religioni – e neppure tra confessioni cristiane –.

Quella in atto è una brutale aggressione determinata fondamentalmente da scelte geopolitiche, che per cercare argomenti per giustificare se stessa fa uso anche di linguaggi religiosi e arruola persino l’Evangelo. 

Un orizzonte ampio

Certo, sarebbe pure necessaria un’esplorazione più ampia, che faccia memoria delle complesse tensioni ecclesiali in Ucraina (efficacemente ricostruite da Adalberto Mainardi); che sappia al contempo indagare i legami dell’argomentazione di Cirillo con alcuni elementi del pensiero sociale ortodosso, quale ha trovato espressione, ad esempio, nel documento Fondamenti della concezione sociale della Chiesa ortodossa russa del 2001 (edito in Italia dalle Edizioni Studio Domenicano e Regno-doc. 1,2001 Supplemento).

È importante però, anche in tale ambito, evitare facili generalizzazioni: è pure dal mondo ortodosso che viene il documento etico-sociale del 2020 del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli Per la vita del mondo (già presentato su Moralia) in cui la prospettiva di fede dell’Oriente cristiano trova un’articolazione e un’esplicitazione profondamente diverse. 

Tale scarto segnala tra l’altro una sfida che interessa anche la teologia: accanto alla prassi di costruzione della pace – nella varietà di forme in cui essa si declina – e alla solidarietà alle vittime, occorre anche una riflessione attenta, che sempre e di nuovo torni a interrogarsi sugli elementi violenti che restano a inquinare il linguaggio religioso.

Lo esige l’Evangelo stesso, annuncio di colui che chiama a trasformare le spade e le lance in strumenti di pace, per disegnare un futuro senza violenza. 

In questo spazio – e solo in questo spazio – potrà trovare la sua collocazione anche la necessaria riflessione etica su comportamenti e scelte specifiche in questo drammatico contesto, caratterizzato da scenari inediti e di elevata complessità. 

di Simone Morandini, vicepreside dell’Istituto di studi ecumenici San Bernardino e membro del Comitato esecutivo del Segretariato attività ecumeniche (SAE).

Fonte: il Regno

 

Pubblicato da MOVIMENTO Sacerdoti Sposati

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