Un po’ di luce sul centenario di Nelo Risi

MIMMO MASTRANGELO /Avvenire

Il nostro giornalismo culturale spesso difetta e capita di distrarsi. Questa volta non c’è stato un solo cronista letterario o cinematografico che abbia messo nero su bianco per ricordare il centenario della nascita di Nelo Risi (Milano 1920-Roma 2015) il quale, sebbene meno noto del fratello maggiore, il regista Dino, fu un poeta e cineasta di riguardo, che più di una volta venne accostato al “corsaro” Pier Paolo Pasolini.

Poeticamente ragionando anche la moglie, la scrittrice ungherese Edit Bruck, ha tenuto a sottrarre il compagno da quella corrente ermetica di cui fecero parte i vari Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alfonso Gatto per riconoscere nella sua lirica delle venature civili, persistentemente neorealistiche. Per Nelo Risi se la poesia fu rifugio, fuga nella bellezza, registro con cui poter affermare senza condizionamenti la propria libertà di esprimersi, il cinema rappresentò per lui il lavoro, il pane della vita che, comunque, gli permise di estendere il proprio immaginario e rappresentare la sua visione sul mondo, sulla storia, sugli stati della psiche. Si avvicinò alla macchina da presa realizzando diversi documentari su temi sociali e storici ( Il delitto Matteotti, I fratelli Rosselli), lavorò per la televisione girando nel 1965 La strada più lunga con Gian Maria Volonté nei panni di un intellettuale che passa alla lotta partigiana dopo aver parteggiato per il fascismo. L’anno successivo Risi firmò il suo primo lungometraggio,

Andremo in città, tratto da un romanzo autobiografico della moglie che da ebrea venne internata nei lager di Auschwitz e Bergen-Belsen.

Ma fu il caso clinico di una giovane donna in Diario di una schizofrenica (1968) che lo fece conoscere al grande pubblico. A questo lavoro seguirono, con meno riscontri favorevoli, Una stagione all’inferno (1971), biografia sul poeta maledetto Rimbaud, e La colonna infame (1973), dramma storico ispirato al noto saggio di Manzoni e sceneggiato insieme a Vasco Pratolini. Dicevamo dell’oblio caduto sul centenario della nascita di Risi, però, nel vuoto va riconosciuto l’omaggio fattogli dalla Fondazione AEM di Milano e dal Museo Interattivo del Cinema che hanno inserito due suoi cortometraggi nel cofanetto antologico sul cinema prodotto dal 1928 al 1962 dall’Azienda Energetica Municipale di Milano. I due lavori di Risi ben si inseriscono in quella cinematografia industriale (di qualità) che fu prodotta anche nel nostro Paese, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale e con cui si cimentarono, tra gli altri, Emmer, Olmi, Antonioni, Bertolucci, i fratelli Taviani. Il primo lavoro di Risi si intitola Un fiume di luce (1958) che, su delle illustrazioni di Mino Maccari, sintetizza la storia universale dell’elettricità, partendo dagli esperimenti sui generatori di corrente da parte di filosofi e da intrasigenti abati e dalle prime applicazioni delle scosse elettrice nelle sale di anatomia. L’altro titolo è Acqua equivale energia (1958), un breve documentario in cui viene affermato in forma di propaganda come l’espansione economica e sociale di una collettività vada di pari passo con sviluppo e l’utilizzo delle fonti di energia. La riscoperta di questi lavori di Risi (e di tutte le opere della cineteca del AEM) ha una rilevanza, in quanto ci permette di riconoscere che un tassello particolare della nostra cinematografia non basta più catalogarlo nella storia del documentario, ma va impaginato nella storia del cinema italiano tout court.

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Pubblicato da MOVIMENTO Sacerdoti Sposati

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